La cultura della sconfitta, i salottieri senza dignità e una provincia da rispettare

Una domanda che ogni tifoso, ma preferirei chiamarlo cittadino che segue lo sport, dovrebbe porsi, sarebbe il motivo per cui in qualunque trasmissione calcistica, in qualunque canale o emittente, si continui ossessivamente a straparlare di quattro-cinque squadre, trattando il resto della compagnia alla stregua di comparse, paria, peones ingombranti.
Eppure proprio nella vittoria della squadra costruita con fatica, che si pone l’obiettivo salvezza come un miraggio, risiede la bellezza del calcio, ma direi di ogni sport.
Apro un inciso sulla nostra provincia: realtà come Ferrara, Ascoli, Pisa, Crotone, Carpi, Frosinone, Udine, Bergamo, Brescia, Cesena, Parma, Pescara, Perugia e molte altre che hanno militato o militano in serie A, potrebbero essere un ulteriore e poderoso volano per l’aumento di un’ offerta turistica che, oltre al calcio, avvicinerebbe molti tifosi o simpatizzanti alla scoperta dei beni artistici, storici, paesaggistici, gastronomici di cui sono ricche tutte le nostre piccole e medie realtà.
Dalla provincia ci sono pervenuti gli scritti calcistici del pavese Gianni Brera, del carpigiano/modenese Berselli, del parmigiano Bevilacqua, del vogherese Arbasino, del triestino Umberto Saba, del genio salentino Carmelo Bene, per citarne alcuni, e chioso con un “copincolla” dell’alessandrino Umberto Eco che in un’intervista motiva così il suo rifiuto di seguire il calcio:
E non potrebbe almeno segnalarmi i motivi di codesto metafisico rifiuto? (del calcio ndr)
“Dato che la sento così determinato ad estorcermi dichiarazioni su materia che ignoro e detesto, non Le nasconderò che il rifiuto discende dai più svariati motivi. Vi concorreranno senz’altro, ad esempio, le frustrazioni che accumulai adolescente, attesa la mia assoluta inabilità nel dar calci alla palla. Né escludo v’abbia anche concorso un pochetto l’eccidio dei giocatori del Torino, squadra per cui tifavo lievemente: confesso che ci rimasi male. Ma in primissimo luogo mi corre l’obbligo collocare una ragione d’ordine filosofico, tema su cui scrissi altra volta qualcosetta. Noti di passata che nelle rare occasioni in cui mi capita di vedere sul teleschermo partite di calcio giocate come si deve, con bella teatralità, non manco affatto di apprezzare. Il mio odio (ma Lei scriva “risentimento”) è contro la cultura della chiacchiera calcistica. Considero obbrobrioso che pochi individui pratichino uno sport, per consentire a milioni di chiacchierare. L’imponenza dello spettacolo calcistico e la sua abnorme risonanza nuocciono non meno alla mente che al corpo: al corpo, perché consolano le moltitudini del fatto di non fare sport; alla mente, perché spengono e rimpiazzano l’interesse per la pólis”.
Invece assistiamo ad evoluzioni di sedicenti “addetti ai lavori”, per nulla epigoni dei succitati, che fra una genuflessione ad un presidente o ad un ex calciatore o al Moggi “semprepresentenonostantetutto”, si perdono in infiniti quanto inutili dettagli riguardanti la vita e le opere di piccoli uomini e mediocri calciatori, sostenendo le loro irrilevanti e noiose tesi con motivazioni speciose, metafisiche (trovo troppo elegante il termine), escatologiche, non avvedendosi che invece il discorso è talora soltanto scatologico.
Certo non si può pretendere che questi eredi di Citati, Bocca, Labini, Brera, Montanelli (per inciso i primi 4, ed altri che non ricordo, scrivevano tutti sul “Giorno” negli anni ‘50-’60), Zanetti, Caminiti, siano in grado di farci volare con un tocco di poesia, che sia pari al tacco di Maradona, all’eleganza di Van Basten, alla potenza di Gullit, all’estro di Baggio e Mancini. Ma se ci risparmiassero il settimanale dialogo con mister e calciatori, intriso di ovvietà, di “filosofia del gioco”, “scelte di vita”, “progetto che mi piace”, e dedicassero invece un po’ del loro tempo e delle loro competenze (sospettosamente povere) agli sconfitti, a chi lotta per la salvezza, alla minoranza che ha un senso solo in quanto antitesi della maggioranza, alla ricchezza della provincia e delle sue squadre, allora potremmo assistere al miracolo di un calcio più umano, meno imbevuto di parole senza senso e senza contesto, come “eroe”, “onore” che arrivano, puntuale controcanto, dagli spalti.
Non è difficile capire che non si potrebbe parlare di Juve, Inter, Napoli, Roma, senza le presenze di Chievo, Spal, Frosinone, Atalanta, Brescia? Come non si potrebbe parlare di vittoria senza considerare lo sconfitto, che in genere lascia altrettante tracce nella storia, e altrettanti insegnamenti? E’ così difficile da capire, oppure s’è capito ma si preferisce sorvolare e rimestare un minestrone sempre più irrancidito?
Si obbietterà: ma se ne scrivi in tal modo, perché segui il calcio?
Perché nonostante l’invasione massmediatica di cazzate, nonostante in troppi casi noi tifosi diventiamo speculari, nella omologazione verso il basso dei comportamenti, a tante trasmissioni e articoli, abbiamo ancora il sogno dei colori. Quei colori che rappresentano una comunità o una parte di essa, Genova ne è un caso, con la sua storia, i suoi personaggi, i suoi profumi, i suoi uomini di spicco, le sue fatiche, i suoi problemi. Sampdoria è la fusione di una antica società polisportiva che portava il nome di un grandissimo condottiero e politico di fine ’500, con la Sampierdarenese, squadra di San Pier d’Arena, denominata qualche decennio dopo la rivoluzione industriale la Manchester d’Italia. Genoa, e in questo caso mi dimentico di essere tifoso, ha il nome inglese perché una folta colonia di inglesi, dopo l’apertura del Canale di Suez, si era insediata a Genova, trasmettendo tradizioni anglosassoni.
Senza il canale di Suez non ci sarebbe stato probabilmente il Genoa. Ma anche la Sampierdarenese non sarebbe esistita se le industrie a San Pier d’Arena non fossero decollate per lo stesso motivo per cui fu fondato il Genoa. La storia, in un certo modo, lega anime diverse della città. Ma sono andato oltre.
I colori trascendono i calciatori, i mister, i dirigenti, i presidenti, i capipopolo, gli ultras, per lasciare a ciascuno di noi la possibilità del sogno o in qualche momento l’ansia dell’incubo. Tutto il resto è chiacchiera in cui l’alfabeto dell’arroganza o della sottigliezza verbale, inizia proprio dove finisce la singola ma anche collettiva consapevolezza dei nostri diritti e soprattutto dei nostri doveri, dove finisce la cultura che vede in Ettore sconfitto il vero vincitore, che applaude l’ultimo arrivato alla maratona olimpica per il suo coraggio a terminarla, che riconosce la superiorità dell’avversario senza accampare scuse, che rende omaggio al vincitore con sobrietà e allo sconfitto con la compassione nel suo più alto significato (soffrire con).
Chi ama i colori coltiva anche il sogno, l’utopia. Forse per questo motivo scriviamo a nome di quella maggioranza silenziosa, che progressivamente sta abbandonando gli stadi e, presumibilmente, con il tempo si annoierà di campionati scontati come si annoia con queste trasmissione e con queste interviste, sempre più frequenti, sempre più programmate, sempre più scontate.
Il sogno non può e non deve condividere tutto ciò.